Ciao amə.
Vorrei iniziare questa mailing list parlando della forza di alcune parole, del loro portato sociale e politico e di come tutto questo condizioni le riflessioni sulla rappresentazione nei videogiochi.
Insomma: roba leggerina per iniziare questo percorso assieme 😅.
Che dici: cominciamo?
Buona parte del mio lavoro è legato alle parole: come sceglierle, concatenarle, creare rimandi e sintonie tra loro. Come dare loro un certo tono in rapporto alle azioni sullo schermo, come svuotare quelle più grandi del loro significato, o caricare di valore quelle più piccoline, insicure.
Se però dicessi che proprio per questo scrivo e parlo con attenzione, mentirei: la maggior parte delle volte son più presə dal tradurre ciò che penso o immagino in una lingua comprensibile, e a comprendere ciò che mi viene detto dalle altre persone.
Ci sono parole che son più facili da tradurre, come i concetti tecnici o gli elementi di un immaginario condiviso, e altre che sono un gran casino. Esempio: tutt3 usiamo la parola casa più volte al giorno, eppure tutte queste nostre case hanno valori molto diversi e perfino inconciliabili. Siamo convinte di essere nella stessa conversazione mentre seguiamo due binari che ogni tanto si incrociano.
Un tipo complicato di parole da tradurre sono quelle che hanno a che fare con l’identità personale e di una comunità. Sono parole che hanno un valore politico anche solo nell’essere pronunciate. Parole cariche di un immaginario su cui non sempre abbiamo il controllo, e che magari stiamo cercando di cambiare.
Da bravə figlia di Ursula K. LeGuin, credo molto nel potere magico e trasformativo delle parole. Alcune sono veri e propri incantesimi: di recente ho usato la parola frocia su un palco in un contesto non frocio e questo ha generato sguardi confusi o divertiti, reazioni trattenute e commenti da parte di persone che si sono sentite viste. Una parola/incantesimo è tale perché ci libera dall’inerzia, ci obbliga ad agire e reagire al suo richiamo.
Non tutti gli incantesimi danno però il risultato sperato, e visto che vorrei iniziare con te una longeva conversazione ho pensato che gettare una base potrebbe essere una mossa sensata, così da facilitarci future reciproche traduzioni quando parleremo (anche) di videogiochi.
Esisto
La prima volta che mi sono definita frocia in pubblico (rinunciando al più borghese gay) mi ha fatto sentire liberə di essere tante cose che prima mi negavo: se posso essere con gioia qualcosa che per tutta la mia vita è stato un insulto, allora posso essere tutto.
Una volta lanciato l’incantesimo, questo ha iniziato a propagarsi, riflettendosi sulle persone vicine. Da una parte c’è stata la prevedibile dose di rabbia, sdegno, confusione.
Dall’altra questa parola è diventata un richiamo e altre persone, com’è successo prima a me, si sono sentit3 vist3 (questo accadeva prima dei social e dell’internet 2.0, ma molte cose non sono cambiate). Mi ha avvicinato a chi già usava quella parola/incantesimo da ben prima che la scoprissi, e da lì è iniziata per me una trasformazione la cui spinta non si è ancora esaurita.
Uno dei poteri delle parole/incantesimo è quello di creare una comunità. Prima eri solə, poi non lo sei più.
Non accade solo per le realtà marginalizzate: ci sono persone che vedono nella squadra di calcio o nella marca dello smartphone utilizzato una qualche forma di parola/incantesimo e agiscono in suo nome. E se stai al margine e giochi c’è un’alta probabilità di venir vessatə da una comunità che si aggrega attorno alla parola/incantesimo nerd.
Quando la parola/incantesimo viene pronunciata da molt3, anche fuori dalla comunità diventa difficile dire che quella comunità non esiste. Pronunciarla ne aumenta così il potere, e in teoria il peso sociale e politico: si possono portare avanti rivendicazioni, intervenire nel discorso pubblico, decostruire e ricostruire le narrazioni attorno alla propria comunità (modificando quindi gli effetti stessi della parola).
Se vieni dal margine, fare comunità può essere una gioia: ti fa sentire compresə quando ti ritrovi in una cultura aliena, soffocante. Scopri che altre persone prima di te hanno vissuto certe esperienze, e puoi ricevere strumenti e sostegno per affrontarle. Ti fa capire che i problemi che vivi non sono tue fallacie ma responsabilità sociali e sistemiche. Ti fa sentire la possibilità di cambiare ciò che non va. Prevedibilmente, le comunità portano anche nuovi tipi di conflitto, incomprensioni, tensioni (perché così come tutt3 usiamo casa ma parliamo di cose diverse, lo stesso accade per queste parole).
La parola/incantesimo è uno strumento potentissimo, un punto di partenza. Accade però che quella parola da strumento possa diventare fine, obiettivo delle azioni che compiamo, e qui arrivano le mie preoccupazioni.
Incantesimi e vincoli
Questa parte di conversazione un po’ mi agita (il timore del fraintendimento è sempre dietro l’angolo), parto quindi dall’esperienza personale per parlare di qualcosa che conosco.
Tra le tante, ci sono tre parole/incantesimo che mi accompagnano in questi ultimi anni: frocia, non-binary, disturbo d’ansia (non mi va di usare ansiosə perché è una parola così abusata da aver perso il suo carico magico).
Ci sono momenti in cui queste parole smettono di essere mezzi e strumenti (qualcosa che ho, che faccio) per diventare dei descrittori (qualcosa che sono), e questa cosa mi crea enormi difficoltà.
Per me frocia, non-binary, disturbo d’ansia sono invocazioni necessarie a rispondere al sistema in cui viviamo, non esistono a priori. Non avrei bisogno di richiamare il loro potere se non vivessi in un sistema capitalista, patriarcale, cattolico, un sistema fissato coi genitali e la riproduzione, la cui natura è quella di espellere da sé tutto ciò che depotenzia le sue parole/incantesimo.
Non ho motivo di caricare di magia arancia, vento, Partito Democratico, perché non sono parole che in questo contesto hanno un effettivo valore trasformativo. Ma se fossi su una nave alla deriva, arancia e vento sarebbero LE parole/incantesimo. (Non ho ancora trovato un motivo per evocare invece Partito Democratico).
Esiste una parte di me che ha certi bisogni (es: rifiutare le dinamiche violente e aggressive attorno alla mascolinità; avere degli elementi solidi nel quotidiano per non sentirsi costantemente in preda alla precarietà sociale, economica, ecologica; poter creare un rapporto con la spiritualità che non sia verticistico e dogmatico). Questi bisogni sono negati dal sistema in cui vivo, ed è da questo conflitto che emerge la parola/incantesimo.
Prendiamo il disturbo d’ansia, che oltre ad accompagnare me sta lanciando segnali della sua presenza anche su Ursula (la mia compagna canina, non LeGuin). Di base siamo entrambe due persone con una forte ricettività verso ciò che ci circonda (per indole, storia familiare, trasferimento generazionale del trauma o quel che sia). Questa cosa ha i suoi vantaggi evolutivi: se ci trovassimo nella nostra adorabile e per ora inesistente anarcocomunità, saremmo le best vedette sugli alberelli, sempre pronte ad avvisare le ame se stanno arrivando notAllMen, cryptoboys o fan di Elon Musk. Questa ricettività assume l’aspetto di disturbo d’ansia e di un “problema” perché si deve muovere in un contesto totalmente instabile, dominato da una narrazione di emergenzialità costante e distruttiva, da una pressione iperproduttiva mentre tutto perde di senso perché l’idea di futuro viene cancellata (credo di aver appena ferito a morte qualche decina di psicolog3, vi chiedo terribilmente scusa).
Dirmi quindi che sono una persona col disturbo d’ansia significa vincolare una parte della mia identità a quella del sistema che ha reso necessario l’uso di quella parola/incantesimo. Sistema che deve sparire per il benessere di tutt3 noi.
Controincantesimo
Passare dall’ho e dal faccio al sono credo abbia una serie di controindicazioni.
La prima è emotiva: penso sia dannoso costruire un nostro pezzo di identità attorno a un concetto, perché rischia di fossilizzarci. Se sono una cosa allora rischio di creare un ostacolo interiore alla possibilità di esplorarmi, cambiarmi, stupirmi di me. Gli I Ching insegnano che non muta solo ciò che è morto, e penso che buona parte di noi non abbia tutta questa fretta di non mutare più.
C’è poi un aspetto sociale: la costruzione di figure che hanno fatto di una parola/incantesimo un brand crea un ulteriore ostacolo alle possibilità di cambiamento, alterità, impensabilità. Penso alle gare per il patentino per essere la meglio attivista, alla creazione di una serie di dogmi per definire chi meriti o meno di usare una data parola/incantesimo (es: “Zitto tu che mantieni un passing masc, non sei non-binary”). Nei casi peggiori la costruzione del brand ostacola o umilia forme di rivendicazione politica (così a caso: l’incapacità di autocritica di una certe rete femminista attorno al caso Caffo). Figure di questo tipo sacrificano visioni di curiosità, decostruzione e distruzione. Ci portano dallo spazio della domanda a quello della prassi e della prescrizione, fornendoci un insieme di regole comportamentali vendibili poi in un bel workshop aziendale (e qui si apre il centordicesimo capitolo che vorrei affrontare in rapporto su soldi e lotte) e a una divisione binaria su chi sia o non sia unə bravə persona.
Infine c’è l’aspetto politico: se mi affeziono a queste parole/incantesimo, parole nate per lottare contro un certo sistema, il rischio di portare ciò contro cui lottiamo nel processo di trasformazione che cerchiamo di compiere è enorme. Penso alle persone razzializzate che fanno la fatica di ricordarci costantemente quanto i movimenti queer italiani non si siano liberati delle visioni coloniali (e qui suggerisco il profilo de LaBibliotecariaFroshia perché è uno spunto di riflessione e autocritica costante). Ci siamo affezzionat3 così tanto a certe parole/incantesimo da smettere di ascoltare quelle delle altre.
Forse la più grande dote del capitalismo è quello di assimilare e depotenziare ogni cosa, trasformando i nostri incantesimi in controincantesimi. Se la parola/incantesimo smette di essere strumento e diventa obiettivo, a quel punto l’assimilazione è inevitabile. E l’assimilazione genera sempre esclusione, perché viviamo in un sistema che si regge sulla presenza di nemici da combattere e qualcuno da colonizzare, sfruttare, dissanguare. E così la parola/incantesimo gay diventa uno strumento per convincere un certo gruppo di persone che Izr.43l.3 ha il Pride e quindi è buona, così da giustificare ai loro occhi decenni di violenze, occupazioni e un genocidio.
Continuare a ricordarci che una parola/incantesimo è un punto di partenza ci permette di mutarla o abbandonarla quando necessario, così che si possa sempre essere inafferrabili, indomabili, non brandizzabili.
Rappresentazione videoludica e controincantesimi
Su queste premesse poggia la mia visione critica attorno alla retorica della rappresentazione nei videogiochi (soprattutto nelle grandi produzioni).
Credo che un videogioco rappresentativo sia un dispositivo commerciale che ha preso le nostre parole/incantesimo per convincerci di essere viste, ma che di fatto ha permesso alle aziende di sfruttarle e depotenziarle. Lanciandoci tra l’altro contro un gruppo di altre persone (quelle che difendono una versione grigiastra e noiosa della parola nerd) senza prendersene il peso e la responsabilità, subito pronte ad abbandonare sul ciglio delle strada noi e le nostre esauste parole ora che il vento sta cambiando (esempi non videoludici in questo articolo).
Per me l’unica rappresentazione che conta, che può essere magica e trasformativa, è l’autorappresentazione. Quando creiamo e siamo in una posizione di privilegio l’obiettivo non dovrebbe essere rappresentare di più, ma condividere quel privilegio con altr3 scrittric3, disegnatric3, designer, programmatric3, musicist3 e via di seguito, affinché possano condividere e rafforzare le loro parole/incantesimo. Anche quando non le capiamo: personalmente posso capire solo fino a un certo punto (o forse nemmeno quello) quale sia il valore delle parole/incantesimo di una persona razzializzata, di una donna, di una persona con disabilità. Ma non sta a me decidere come debba essere utilizzato quello spazio, con quali parole (e anche per questo avrei sempre piacere di accogliere altre voci qui, ma è un altro capitolo).
Su questa parte avrei mille cose da dire, ma visto che questo primo post è più lungo di tutte le lettere d’amore ricevute da Luigi Mangione, vorrei riprenderlo a modino nelle prossime comunicazioni.
Però, se ti fosse sfuggito: di videogiochi e rappresentazione ne abbiamo parlato anche come owof nella talk Not So Straight. Piccolo corso di hacking queer per videogiochi che abbiamo portato a Milano prima a IGDA e poi a Zona Warpa, e ne abbiamo fatto un piccolo workshop presentato durante la GildaCon. Se il capitalismo ce lo concede, vorremmo trovare il tempo di ampliare, approfondire e incasinare ancora di più queste riflessioni. Come sempre, ogni spunto è ben accetto.
Cose random che ho apprezzato in queste settimane
Dicembre è stato un mese emotivamente complicato, ma le persone care e Wylde Flowers l’hanno reso molto più facile da gestire. Tra contesto, personagg3, e personalizzazione del ritmo di gioco è stato una copertina calda sul cuoricino infreddolito, e finirlo mi ha spezzato un po’. Forse una delle cose che ho apprezzato di più sono proprio le personagge: non figurine che sembrano prodotte da una AI (coff coff Taash coff coff) ma persone con bisogni, identità e visioni contraddittorie (la non accoglienza, la diffidenza, il timore è qualcosa che attraversa prima o poi molt3 di noi qui fuori come in Wylde Flowers).
Lato fiction ho letto Nightbitch di Rachel Yoder, che credo di aver consigliato a qualsiasi ama, Sharp Objects di Gillian Flynn (meh) e Father of Lies di Brian Evenson, ottimo e violento esempio di quello che può fare l’horror: mostrare gli orrori dei nostri sistemi di potere.
Lato non fiction mi sto facendo coccolare da No Time to Spare di Ursula LeGuin, e avanzo (lentamente) su Procedural Storytelling in Game Design di Tanya X Short e Tarn Adams (diversi interventi sono molto interessanti, ma fatico a trovare un manuale di narrative design e scrittura che mi dia quello che sto cercando, a parte Writing For Games di Hannah Nicklin. Si accettano suggerimenti).
Sono in fissa con le live di IlluminaAosta, mi sto recuperando con colpevole ritardo il podcast Play Journal di Rugerfred, ma in generale sto guardando poco nulla tra serie e film dopo un’estate di intossicazione da centordici edizioni di Drag Race. Così al volo: delusione massima da Heretic (per un attimo mi ero illusa finalmente di trovare un film che riuscisse a infliggere terrore esistenziale solo attraverso la conversazione), Oddity mi ha lasciato addosso un piacevole disagio, Cuckoo apprezzato soprattutto perché per una volta le personagge presenti non fanno (quasi) niente di insensato. Ma l’ho visto con la febbre, per cui prendi questo commento con le pinze.
Aggiornamenti vari, e dove possiamo trovarci questo mese
Da qualche mese stiamo lavorando al nuovo gioco di owof, su cui manteniamo ancora un po’ di riserbo fino a quando non abbiamo testato e sistemato il quarto prototipo. Sarà un progetto molto più grande di non-binary e The Good Dog Show. Posso però anticiparti che lo stiamo immaginando assieme alle visioni estetiche di Gabriele Perugini (che prima o poi sculaccio se non si fa un portfolio a modo, ma che puoi seguire qui) e alle musiche di Andrea Nannerini/wRRng (qui il suo Bandcamp).
Nel frattempo sto provando a fare un progettino da solə: l’idea era di fare un esercizio di programmazione, ma alla fine sta diventando a tutti gli effetti un videogioco autonomo. Di questo ne parlerò spesso mi sa, a partire da dopo il testing del primo prototipo.
Lato eventi invece: gennaio sarà un mese socialmente tranquillo, almeno fino a venerdì 24, quando inizierà la tre giorni di Global Game Jam anche qui a Bologna (e online). Se ti va possiamo vederci lì (c’è sempre un sacco di gente adorabile con cui immaginare giochi imprevisti), ma se non puoi spostarti, ricorda che ci sono sedi della Global in molte città: a Milano per esempio c’è la sede organizzata dall3 am3 di IGDA Milano, e a Cagliari da quell3 di IGDA Cagliari, tutte persone con una visione del mondo e del gioco vicina alla nostra.
Ed eccoci alla fine.
Sto rimandando la chiusura di questo primo post da giorni, con la sensazione di dover far qualcosa di perfetto ma boh, chi decide cosa è perfetto (l’ansia risponde: l’algoritmo e la quantità di like/commenti/ricondivisioni che otterrai, ma vorrei proprio evitare di iniziare a ragionare con questo pensiero capitalista). Il timore di aver detto delle cazzate è sempre lì a battere sulla capoccia, ma a volte è anche importante imparare a sbagliare.
Se ti va di commentare qui o in privato, fa solo che piacere.
Nel mentre: buona frociaggine ❤️
A presto.
QW
PS: non so come mai ma nonostante abbia disattivazione l’opzione Abbonamenti, Substack propone di pagare per la newsletter. Tu fa finta di nulla.