Ciao am3 ❤️
Vorrei prima di tutto ringraziarvi: non mi aspettavo le letture, i commenti, gli scambi che sono nati col primo post. Mi avete riempito il cuoricino.
Nella speranza che col tempo si crei una bella e longeva conversazione tra tutt3, ho attivato la chat di Substack (che dovrebbe essere qui). Anche se provo un po’ di angoscia all’idea di lanciare messaggi nel vuoto, magari nei prossimi giorni inizio a scriverci qualcosa.
Ma ora: sotto col lavoro gioco.
Partirò da uno dei due titoli in creazione di owof per riflettere sul rapporto tra lavoro e gioco. Ovvero: davanti alla console/PC/smartphone col nostro videogioco preferito, quanto stiamo giocando? E quanto invece stiamo lavorando?
Vi spiegherò al volo il concept del progetto per poi passare a parlare di cozy games, giochi in cui si lavora, animali giocanti e Kropotkin che dà le paste ai neodarwinisti.
Partiamo?
Riscriversi
Per ora con owof siamo su due progetti: uno che stiamo portando avanti in quattro, e uno che sto cercando di portare avanti da solə (con qualche aiuto tecnico e teorico). L’idea era di avere una scusa per studiare meglio programmazione e Unity, ma alla fine le cose mi sono sfuggite di mano. Strano.
Questo secondo progetto (che ora è in fase prototipo 1.5 e quindi cambierà ancora molte volte) non ha ancora un nome definitivo, ma per facilitare la conversazione per ora lo chiameremo Riscrittorə.
Riscrittorə è natə rimuginando su alcune frustrazioni vissute giocando The Book Walker. Ho cercato una meccanica che permettesse di riscrivere storie, evitando l’arroganza di intervenire direttamente su quelle altrui, ma concentrandosi piuttosto sulla possibilità di aiutare altre persone a rileggersi e rinarrarsi in una chiave diversa, trasformativa.
L’idea complessiva del gioco è di raccontare quei momenti in cui siamo bloccat3 (da problemi pratici, da paure del futuro, da sfiducia verso di noi), pensando a soluzioni per uscire dallo stallo, vuoi per le personagge in gioco, vuoi magari anche per chi gioca.
Ho parlato già un po’ nel primo post della necessità di controllare il modo in cui vengono narrate le proprie esperienze e le parole/incantesimo di una comunità.
Il modo in cui ci narriamo ha un effetto molto forte anche a livello personale: ci sono cose che sentiamo e facciamo, e poi c’è il modo in cui le raccontiamo e interpretiamo. Ad esempio posso dirmi ossessionata dal lavoro, quando in realtà sono alla ricerca di un valore personale in una società che mi considera come valida solo se sono una lavoratrice. O posso raccontarmi e farmi raccontare come persona autistica, quando invece sono solo un altro nazista di merda.
Comunque. Arrivatə alla meccanica, il genere ludico di riferimento mi è sembrato ovvio: un gioco cozy, accogliente, a contatto con la natura. Un luogo dove la giocatrice possa prendersi cura di sé, secondo i suoi tempi e i suoi bisogni.
Poi ho pensato ai titoli cozy su cui ho speso più ore.
C’è l’infinito Stardew Valley (vale?), i vari Animal Crossing, un po’ di Cozy Grove, di Moonstone Island, e il mio recente amore Wylde Flowers.
Tutti giochi che presto o tardi ho smollato per un solo motivo: non ho voglia di lavorare anche mentre gioco.
Non ho voglia di passare ore a innaffiare correndo poi al negozio per vendere cose che mi servono per altre cose con la speranza di dare un dono che possa farmi acquistare un pezzettino di storia o una romance. Non ho voglia di far crescere all’infinito una fattoria perché sì, perché viviamo in un mondo dove non è concepita sosta, non è concepita l’idea di rimanere piccol3.
Molti cozy games sembrano celebrare il piacere nel lavoro, spingendoci a costruire, coltivare, minare. Echoes of the Plum Grove è esplicito: nella sua descrizione “ lavora, guadagna” sono tra le parole chiave. Personalmente non ho nei piani né ora né mai di creare un gioco dove per ricevere dieci secondi di piacere chi gioca debba fare cose noiose per venti minuti.
O forse sto sbagliando?
Perché se milioni di giocatric3 passano ore e ore e ore a tagliare alberi e minare, forse quei venti minuti non sono così noiosi.
Giocare a lavorare
In questo video aSwordBear si chiede: perché ci piacciono i videogiochi dove si lavora?
Per trovare la risposta, ha provato a dividere questo tipo di videogiochi in quattro gruppi.
Il primo è quello dei Productivity Engine (shapez, Factorio), dove l’obbiettivo è di automatizzare un sistema per crescere sempre di più.
I Satisfier (Unpacking, Power Wash) ci danno la possibilità di fare cose che nel mondo reale hanno un costo (fatica, sporco etc.) senza rischi, permettendoci di lavorare coi nostri tempi e i nostri ritmi.
I Simulator (Farming Simulator, Supermarket Simulator) simulano lavori esistenti: costruire case, gestire un negozio, pulire scene del crimine. Un po' come i Productivity Engine hanno l'obiettivo di far crescere l'attività, ma in uno spazio più quotidiano e circoscritto (in molti dei giochi citati da aSwordBear la posizione non è comunque quella dellə lavoratricə dipendente, ma dellə proprietariə dell’attività).
Infine ci sono i Real fake Jobs (Lethal Company), lavori senza senso che prendono in giro i lavori che dobbiamo fare.
Per aSwordBear, come persone umane siamo portat3a provare soddisfazione nell’organizzare e ordinare le cose, e farlo ci scarica in corpo botte di dopamina.
E cerchiamo giochi legati al lavoro perché ci fanno sentire in controllo, produttiv3, senza l’effettivo rischio del fallimento. Non subiamo le pressioni dei capi, gli effetti della disorganizzazione. Riceviamo il piacere del lavoro senza le rotture di scatole delle sovrastrutture capitalistiche.
Insomma: siamo soddisfatt3 se lavoriamo scegliendo cosa fare, come farlo, quando farlo, e senza le pressioni di inutili capett3.
Ma cosa significa lavorare?
Spoiler: non avevo una risposta sensata a questa domanda quando ho deciso di scrivere questo post, non l’ho ora che lo sto risistemando.
Pensando al fastidio che mi generano alla lunga i cozy games, mi son resə conto che, lì come nel resto del quotidiano, una cosa che mi pesa non è l’idea del lavoro in sé. Il problema è quando il lavoro è privo di un suo significato intrinseco.
Per vent’anni ho fatto un lavoro socialmente inutile che resta in piedi lucrando su un servizio che, come tutto, dovrebbe essere un bene comune (la telecomunicazione) guadagnando poco o nulla in modo da arricchire chi stava al vertice in quel momento. Che è l’esperienza di quasi tutte noi: se parlo con l3 am3 sono tutt3 frustrat3 perché passano ore a progettare intranet che servono solo a dare bonus a manager incapaci; telefonate per ricattare vecchiette nella speranza che cambino inconsapevolmente compagnia del gas; applicazioni per monitorare la durata delle pause bagno di altr3 dipendenti in altre aziende che fanno altre cose inutili (anzi: non solo inutili, ma socialmente dannose. Le cose inutili possono essere belle, riposanti, sorprendenti. Questi lavori fanno solo del male a società e ambiente). Passiamo la maggior parte del tempo delle nostre giornate non a socializzare, aiutare, immaginare, creare, riposare, giocare, ma a fare azioni prive di qualsiasi senso.
Sperando di non ferire nessunə amə comunista (prendo le vostre riflessioni per osmosi ma di fatto non ho mai letto nulla del daddy barbuto), credo che questo aspetto rientri tra le varie definizioni di alienazione previste da Karl Marx. Se prendo Wikipedia (e ora ho almeno unə amə commie sulla coscienza) chi lavora "è alienato dalla propria attività, perché non produce per sé stessə, ma per per un altro (il capitalista)" ed "è alienatə dalla sua stessa assenza, poiché il suo non è un lavoro costruttivo, libero e universale, bensì forzato, ripetitivo e unilaterale".
Aggiungo che per me alienazione dal lavoro è anche quando il lavoro in sé é privo di significato sociale. Siamo animali sociali, stiamo bene quando siamo con persone che ci riconoscono un valore, persone che possiamo aiutare, in uno scambio che richiede anche fatica, ma una fatica sensata e ripagante.
In Stardew Valley non coltivo le patate dolci per il piacere di coltivarle. Non c’è rapporto con la terra, non ho interazione con le persone non umane che la vivono. La soddisfazione principale è donarle a Linus, ma il resto delle volte ogni piacere è mediato dalla vendita che mi permette di guadagnare soldi per coltivare altre cose o ingrandire l’orto per coltivare altre cose o fare la stalla per allevare animali per vendere altre cose e così fino a quando non ho il latte da donare a qualcun altrə e poi ripetere il ciclo.
In molti di questi giochi non esiste un’azione che sia altruista, che esaurisca il suo significato nel piacere dell’aiutare: in qualche modo ho sempre un ritorno, un guadagno. Un po’ come in Animal Crossing: qui Matteo Lupetti ci racconta l’evoluzione di un gioco che passa da “questa realtà esiste a prescindere da me” a “questa realtà è me”. Ed è interessante che per arrivare a quel è me il gioco sia approdato a una forma di gamification, a un lavoro nel gioco.
Per Riscrittorə il mio obiettivo è che chi gioca possa prendersi cura di sé con azioni che abbiano un significato intrinseco, non estrinseco: per questo motivo anche se è prevista anche qui, come in molti cozy games, una meccanica di dono all3 altre3 personagge, quel dono sarà ricevuto attraverso azioni che spero siano soddisfacenti in sé e per lə giocatricə stessə.
Ma mi chiedo se possa davvero funzionare: basta una scelta del genere per invitare chi gioca a godersi ogni passaggio dell’esperienza? O rischia di diventare solo una distrazione fastidiosa lungo la strada del power play?
E poi: ho davvero separato il lavoro dal gioco?
Dov’è la distinzione tra lavoro e gioco?
Anche gli elettroni giocano
Continuo a chiedermi: siamo umani perché lavoriamo (come sembra pensare Marx), o vediamo soddisfazione nel lavoro solo perché siamo cresciut3 in una cultura lavorista?
Ogni giorno escono articoli che cercano di convincerci che siamo perché lavoriamo (sotto un padrone). Ne prendo uno a caso: questo de Il sole 24 ore (peccato di lib, sorry) sostiene che lavoriamo per sentire di appartenere a qualcosa, per lasciare un segno, per darci un senso, per sentirci unic3.
Tutti obiettivi realizzabili nelle nostre relazioni, o quando facciamo parte di attività di volontariato, di gruppi di elaborazione sociale o di collaborazione politica (lasciando da parte la complessità del sentirci unici, sono tranquillə nel pensare che siano tutte motivazioni che muovono il progetto di IN/VISIBIL3, le attività di Rivoltelle, una Zona Warpa, un Ex Machina, La Gilda e via all’infinito).
In un mondo che ci dice che il nostro valore, il nostro stesso diritto ad esistere dipende dal lavoro, non è forse inevitabile trovare piacere e soddisfazione nel farlo (anche nei giochi), senza che per questo sia naturale?
Guardiamo un sacco di cose attraverso lenti che crediamo neutre ma che sono totalmente condizionate dalla cultura e dalla ideologia in cui nuotiamo. Per esempio, osserviamo in modo carico di bias anche il rapporto tra persone non umane e gioco.
David Graeber in What’s the Point If We Can’t Have Fun? (che potete trovare qui) ci racconta che "L'esistenza del gioco negli animali è considerato uno scandalo intellettuale". Da Darwin in poi"[...] l'analisi del comportamento animale non viene considerata scientifica se non quando non si assume che l'animale operi in accordo secondo gli stessi calcoli mezzo/fine che si applicano alle transizioni economiche.” Non esisterebbe quindi un’azione senza un fine indirizzato alla sopravvivenza e alla riproduzione.
Il gioco dell’animale deve essere sempre descritto come finalizzato, è solo un momento di scuola in vista dell’età adulta. Eppure moltissimi animali e insetti (bruchi, formiche, granchi violinisti, salamandre e via verso l’infinito) giocano per il piacere di giocare. Secondo Graeber il neo-darwinismo applica un principio che riconosce come universale perché teoricamente umano (ovvero che agiamo solo per egoismo e avidità) a tutto il regno animale. La stessa logica che porta a interpretare la realtà come un’eterna competizione, invece di riconoscere effetti e vantaggi espliciti della collaborazione (tema affrontato da Pëtr Kropotkin in Il mutuo appoggio: un fattore dell'evoluzione e difeso da un miliardo di anni dai funghi).
Questa idea di azione finalizzata ci spinge a leggere tutto come un dare e avere, a leggere ciò che non viene regolato da un fine economico come un’aberrazione (Graeber parla a un certo punto del “problema dell’altruismo”, “risolto” in teoria dalla teoria del gene egoista di Richard Dawkins e lì rimando al testo di Graeber per evitare di scrivere altre mille parole).
Il gioco allora forse può distinguersi dal lavoro in questo suo essere aberrazione, azione non finalizzata. O meglio, che appare non finalizzata se analizzata attraverso la lente di un sistema di valori che ritiene che l’essere umano si muova solo per egoismo e avidità, confondendo il capitalismo con la realtà.
Gli elementi di cui parla l’articolo de Il sole 24 ore (appartenenza, senso, unicità, anche l’idea di lasciare un segno) sono ovunque fuori dal mondo lavorativo, e li ritroviamo anche nel gioco.
E cosa c’è di più pericoloso in un sistema capitalista che pretende di rendere anche la socialità qualcosa su cui fare soldi (come accade col lavoro che tutt3 facciamo gratuitamente per le piattaforme social) di un’attività fine a sé stessa, fatta per il piacere di essere compiuta e condivisa, che ci dà soddisfazione e valore personale senza per forza generare dati o denaro?
L’unico modo per addomesticare il gioco allora è renderlo lavoro, nascondere il lavoro anche nei posti più impensabili (usarlo per addestrarci al lavoro, citando non ricordo più chi, ma a naso direi Matteo Lupetti). Privarci della possibilità di immaginare un’attività senza finalità, senza obiettivi, e senza sentirci in colpa. (O demonizzarlo, ma quello è materiale per un altro post).
E quindi, cosa farà questa Riscrittorə?
Plausibilmente la prima cosa che farà Riscrittorə ed io con ləi, sarà deludervi. Sto cercando di applicare alle cose che creo tutti gli sragionamenti che faccio e che condivido, ma mi rendo conto che liberare la parte creativa da certe visioni (soprattutto quando sono sommersə da preoccupazioni legate al lavoro e alla sopravvivenza economica) è difficile.
Una cosa che voglio fare sicuramente è quella di portare una personale visione utopica all’interno di questo progetto (e a proposito di utopie: c’è un bellissimo intervento che Verena Kyratzes [The Talos Principle, Serious Sam 4 e altri giochi] ha fatto sulla necessità dell’utopia per la Global Game Jam di Bologna e che vi consiglio. Lo trovate qui.).
La mia visione di un futuro ideale è abbastanza basic: piccole comunità sociali autogestite che delegano quanto più lavoro possibile alle macchine, suddividendosi il lavoro che gli automi non sanno fare tra di loro, secondo attitudini e capacità, con l’obiettivo di avere più tempo libero possibile per far quel che si sente proprio (ok, tutto questo dovrei elaborarlo meglio). In sostanza: solidarietà, creatività, ozio.
Kropotkin e gli animali non umani ci offrono però un’altra risposta, qualcosa che potrebbe guidarmi nella creazione del gioco (e oggi abbiamo imparato che l3 anarchic3 sono persone fiduciose ❤️).
(Traduco malamente da What’s the Point If We Can’t Have Fun?)
E se molte rappresentazioni [del gioco] sono quelle di una scuola per il comportamento corretto dei giovani in vista della vita matura, ce ne sono altre che, al di là dei loro scopi utilitaristici, sono, insieme alla danza e al canto, semplici manifestazioni di un eccesso di forze - “la gioia di vivere”, e il desiderio di comunicare in un modo o nell'altro con altri individui della stessa specie o di altre specie - in breve, una manifestazione della socievolezza vera e propria, che è una caratteristica distintiva di tutto il mondo animale.
Ecco. Vorrei immaginare un gioco post-lavorista, e vorrei farlo partendo da questa assolutamente non funzionale e non utilitaristica gioia di vivere.
Cose random che ho apprezzato in queste settimane
Baro, partendo da una postilla. Questo discorso è tutto fuorché chiuso, e tra le varie cose lette in questi giorni che vorrei approfondire in futuro c’è un paper sul rapporto tra lavoro e giochi online che vi consiglio tantissimo e che trovate qui. Marijam Did affronta molto meglio di me poi il tutto in Everything to Play For, libro che devo ancora iniziare a modo ma che Mattia Belletti continua a citarmi anche mentre facciamo la spesa. Ho anche una voglia matta di parlare di Vampire Survivors, Balatro, slot machine e dipendenza. Insomma: mi sa che sul rapporto tra gioco e giocatricə ci tornerò spesso.
Ho giocato e letto meno in queste settimane, ma è accaduta una cosa insolita: giocare a un videogioco e poi leggere il romanzo che l’ha ispirato. Si tratta di The Invincible, nella versione videoludica di 11 bit studios e in quella narrativa di Stanisław Lem. Ora, non ho nei piani di fare analisi o recensioni su questa pagina, ma è davvero interessante vedere come da due storie con le stesse premesse siano nate esperienze molto diverse: da una parte uno sguardo spesso pratico, pragmatico, “razionale” in una pletora di attori tutta al maschile; dall’altra un agire empatico e sociale, attraverso lo sguardo di una donna. È stato bello ritrovarsi ad apprezzare di più il videogioco del romanzo. E Yasna mi è rimasta nel cuore.
Carrellata veloce di altre cose che mi sono rimaste nel cuore in queste settimane.
Sono quasi alla fine di Arcade Spirits (grazie a Stefano di Bernardo per il consiglio) e sto amando tutte l3 personagg3 ma, soprattutto, è stato bello veder parlare di problemi economici e fallimento in un videogioco. Per un po’ mi son sentitə meno solə. Sto ascoltando a manetta What Happened to the Heart? di Aurora (e qui ringrazio Cecilia Formicola) ed è amore totale.
Giulia Martino come sempre riesce a farmi innamorare di giochi che non volevo giocare (sono troppo vecchiə per tutto quello che supera le dieci ore di esperienza), mentre Matteo Lupetti ha inavvertitamente riempito la mia libreria di dieci nuovi giochi. Damiano d’Agostino è tornato alla grande con una nuova newsletter. E grazie al lavoro di Aion Interactive (e alla scrittura di Ivana Murianni) la “mia” Valle Camonica sarà in un videogioco. Non l’avrei mai pensato, ma la cosa mi emoziona un sacco.
E poi c’è stata la Global Game Jam di quest’anno (letteralmente finita poche ore fa). Il tema è stato Bubbles, e a proposito di attività che danno piacere e soddisfazione sociale, in quarantotto ore un gruppo sempre più grande ed eterogeneo di persone si è incontrato, si è aiutato, ha cazzeggiato a manetta e nel mentre immaginato giochi di ogni tipo. Se volete dare un’occhiata alle submission del nostro chapter, le trovate qui. (Nota a margine: quest’anno ho deciso di non scrivere e mi son occupata della parte grafica, mentre Mario di Bernardo si è liberato della programmazione per scrivere, ed è stata una cosa molto bella da regalarci. È sempre importante avere accanto persone che ti permettono di provare e sbagliare).
Aggiornamenti vari, e dove possiamo trovarci questo mese
Se Riscrittorə prosegue (ed entro un paio di mesi potrei forse cercare dell3 tester volontari3), l’altro misterioso progetto Owof, ben più corposo, continua a soffrire delle conseguenze di quella terribile pandemia secolare che chiamiamo capitalismo.
Febbraio sarà un mese scarico di eventi (per cui se sei o passi da Bologna, fai un fischio ❤️) ma va bene così: siamo ufficialmente entrat3 nei tre terribili mesi prima di IN/VISIBIL3 (avete visto che abbiamo aperto la call per l’area indie?).
E accanto alle riunioni per IN/VISIBIL3 ora ci sono quelle per un altro progetto: sembra che partiremo a breve con il chapter Emilia Romagna di IGDA. Stay tuned.
Come sempre, l’invito è aperto a commenti, critiche, grattini (a me o a Ursula la cana).
Nel mentre: buone utopie❤️
QW
PS: cosa buffa, ma mentre finisco di sistemare le ultime cose qui, Matteo Lupetti ha appena scritto un articolo su giochi cozy, wholesome e derive reazionarie. Lo potete leggere qui.
Non riesco a leggere per bene al momento, ma quanto ti voglio bene che nomini Kropotkin e Graeber? ❤️🖤
I believe in life without work, per rispondere alla domanda del sottotitolo (c'è chi lo legge cantando e chi mente). Ma ancora di più I believe in life frocizzata. Chi l'avrebbe mai detto che la cultura dei videogiochi potesse nascondere il germe dell'anarchia e quindi appassionarmi so much 🫰👽