Ciao am3, come state? ❤️
Il grande dilemma di questo mese è stato: visto che son stanca morta, è più rispettoso tardare con la pubblicazione o rispettare la regolarità promessa e mandare una newsletter mediocre? Quindi: benvenut3 in un giro di mediocrità. Ma coi glitter ❤️
Parto subito con un ringraziamento particolare a Nicola Patti: qualche settimana fa mi ha fatto notare che nel podcast dico spesso ambaradan, e non sapevo fosse un termine razzista, un prodotto della storia coloniale italiana. Qui c’è una spiegazione fatta da Colory.it. Fatemi notare tutte le cazzate e le cose robe orribili che posso dire, senza problemi. Siate come Nicola ❤️
Ma di cosa si parleremo a questo giro? Di Drag Race e di che cosa ci possa insegnare quando ci occupiamo di narrative e game design.
Ma dato che vorrei costruire assieme questo spazio, alla fine della newsletter ho messo un sondaggio per capire che direzione vorreste che prendesse Frocizziamo i videogiochi. Sarei felicissima se condivideste le vostre opinioni. E dopo l’estate mi piacerebbe iniziare anche a contaminarci di più, avviando un po’ di collaborazioni o creando degli episodi extra in autogestione. Insomma: scaldate ditina e tastiere ❤️
E ora: iniziamo!
Gentlethem, start your engines!
Per esser sicur3 di partire da una base comune, ecco un recappozzo del funzionamento di una stagione tipo della Drag Race.
Una decina abbondante di drag queen competono ogni settimana per arrivare alla finale. Quasi ogni episodio inizia con una mini challenge: un minigame senza eliminazione che può dare un vantaggio per la maxi challenge. Dopo la maxi challenge l3 giudici decidono chi è in top e chi in bottom. Una queen vince l’episodio, due si sfidano per la sopravvivenza con il lypsinc for your life. I giudici decidono chi eliminare, e il tutto riprende l’episodio successivo, fino a quando non si arriva a tre o quattro queen e nella finale si decide la vincitrice.
Essere una drag queen significa avere una versatilità che manco una ingegnera alla NASA: devi essere esperta di trucco, parrucco, lip sync, ballo, passerella, recitazione, intrattenimento del pubblico, comicità. È poi gradito saper cucire, magari cantare, avere senso dello stile, e portare sul palco qualche attitudine personale (dalla giocoleria al burlesque). Più quello che ormai tocca a tutte noi: sapersi brandizzare.
Le maxi challenge nella Drag Race si concentrano su queste competenze. Abbiamo acting e improvisation challenge (recitazione), ball (sfilata), coreografia, Rusical, girl group challenge (ballo ed eventualmente canto), makeover (trucco), design challenge, e poi le sfide comiche: Snatch Game, roast, stand-up. E via di seguito.
Tutto questo deve inserirsi nel contesto del reality, ovvero qualcosa che finge di essere realistico, spontaneo, uno spaccato di vita vissuta. E per farlo con successo deve nascondere al meglio i suoi trucchi.
Come un videogioco.
Il casting come character design
(nota: mi rendo conto che, forse in maniera poco ortodossa, per me character design racchiude la parte testuale, grafica, audio e di meccaniche della costruzione di una personaggia, perché tutte queste cose portano poi a narrarcela).
I reality TV vivono di drama. Ok il gioco, ok la sfida. Ma se tutte le persone protagoniste vanno d’amore e d’accordo evitando ogni conflitto e passione, l’unica vera star diventa la noia.
Un buon casting punta su persone che hanno già conflitti irrisolti fuori dallo show (l’eterna seconda vs quella che vince sempre; due ex amanti e una storia finita male, un tradimento di fiducia in un altro reality); su rapporti da caricare di competitività (datrice di lavoro e sottoposta; madre drag e figlia); sul creare il contesto adatto per un flirt.
Serve poi accoppiare caratteri che creino tensione: c’è la drag sempre pronta a buttarsi in cagnara e quella che pacifica ogni conflitto; la tizia che sputa sentenze e quella sempre sulla difensiva; quella carina e gentile fino a quando non le pesti i piedi, e quella che sembra aggressiva ma perché ha avuto una vita traumatica.
Tutti i giochi si basano sulla ripetizione (hello, loop di gioco). Sono l3 compagne di viaggio a rendere la ripetizione godibile, a portare l’imprevedibile nel prevedibile.
Le personagge di un gioco hanno un’enormità potenzialità. Ci aiutano a sviluppare il tema del gioco stesso. Ci portano complessità e conflittualità. E soprattutto ci portano “perché”. Perché è qui con noi? Cosa dice di volere e cosa vuole davvero? Ci possiamo fidare? I suoi obiettivi coincidono davvero coi nostri? In ogni narrazione i buoni perché diventano un gancio per coinvolgere sin da subito.
Dragon Age: Veilguard e Avowed hanno companion altamente dimenticabili, rendendo diversi aspetti dei due titoli non sempre digeribili. Puoi anche avere il meglio combat system e il plot centrale che è una bomba con una grafica che ti fa sognare, ma se poi devi passare cento ore con degli appendiabiti semoventi, la magia si rompe. Gnosia, una rilettura di Lupus in fabula, ha un game design interessante, ma poi il character (nonostante l’occasione per creare continue tensioni) tende a perdersi rapidamente, i dialoghi sono poveri, e la voglia di continuare a capire chi è Gnosia e chi no ti passa.
Scarlet Hollow invece mantiene ogni personaggia sempre interessante, attiva, con qualcosa da dirci. Il character design è una bomba, le domande aperte da ogni personaggia sono stimolanti e coinvolgenti. Per questo ogni scelta che compiamo ha un peso, che si tratti di decidere con chi passare del tempo o chi provare a non far morire in una cava. Stesso discorso per EXPELLED!, dove ogni personaggia ti si ficca in testa in quindici secondi e vuoi sapere tutti i suoi perché subito.
Ma di certo non basta un buon casting o un buon character design per fare un buon gioco.
La triplice funzione della conduzione: UI, level design, audio design
UI, level design, audio design sono accomunati dalla capacità di dirci a cosa dobbiamo o meno prestare attenzione.
In un reality show il panel di giudici non serve tanto ad applicare le regole, quanto a dirci come leggere gli eventi dell’episodio.
“Sei stata perfetta ma” .“Il vestito è sciapo eppure”. Frasi che ci fanno mettere in discussione parte del nostro giudizio.
Se Michelle Visage si mostra sorpresa da una spaccata (seppure sia la terza della stessa concorrente), se RuPaul che sghignazza per una battuta (magari mediocre), probabilmente vedremo la queen in questione sotto una luce positiva.
Se Ts Madison sembra disgustata o Carson Kressley perplesso durante una sfilata, ci viene il dubbio che forse forse quel vestito non sia così spettacolare.
Drag Race ha una serie di suoni e musiche codificate a cui, come fan, associamo un valore emotivo e narrativo specifico, e nel momento in cui li sentiamo sappiamo già come interpretare una situazione. Questo è vero in ogni media, e ancora di più nei videogiochi (motivo per cui chi si occupa di SFX e audio dovrebbe essere presente sin dall’inizio dello sviluppo di un gioco but).
Un esempio su tutti: il Simlish in The Sims ci guida nel comprendere lo stato d’animo delle personagge.
Magistrale nel level design è invece Super Mario Bros.: entriamo in uno spazio 2D, Mario si trova all’estrema sinistra dello schermo, a destra solo uno spazio da percorrere. Non servono frecce per capire dove andare.
Anche la UI ci guida: il contatore delle monete è presente sin da subito in un luogo ben evidente. La prima cosa che incontriamo è una moneta. La prendiamo, il contatore aumenta: non servono altre spiegazioni.
Nei videogiochi come nella Drag Race, le cose interessanti possono accadere se disubbidiamo e guardiamo altrove: a quel punto possiamo renderci conto che la dev ci ha lasciato un piccolo premio (loot o lore), o che la fan favorite della stagione forse forse non è una così bella persona, mentre quella che sembra la cattiva della situa, è solo una che non digerisce le cazzate della produzione.
Da fan delle UI diegetiche, un altro elemento di un reality che può sia dirci cosa guardare, sia darci nuove informazioni senza mai toglierci dall’illusione di realtà è il linguaggio che lo show utilizza.
Drag race negli anni ha consolidato un vocabolario collegato alla storia LGBTQIA+ e allo stesso show: Victoria "Porkchop" Parker è stata la prima drag ad essere eliminata, e ora Porkchop indica la prima eliminata di una stagione. Ci sono termini come werk (una che si mangia la passerella) che troviamo anche nella Werk Room. La library non è una biblioteca: se la biblioteca è aperta, è il momento di insultarsi (con rispetto) a vicenda.
Il montaggio come narrative design
Non ricordo dove lessi una distinzione tra storia e narrazione che amo molto: la storia è tutto quello che accade, la narrazione è cosa scegliamo di raccontare. Per questo da una singola storia possono nascere infinite narrazioni, e il montaggio diventa sia il modo di creare quella narrazione sia la voce narrante.
Per un’ora di episodio di Drag Race la quantità di girato a disposizione è immensa: le riprese durano almeno due giorni, e le telecamere riprendono più eventi contemporaneamente.
Scegliere cosa mostrare significa scegliere quali narrazioni portare.
Negli ultimi anni si sono consolidati nella Drag Race alcuni archi narrativi standard per le queen.
C’è l’underdog: una sconosciuta spesso ignorata per i primi episodi, che inizia a farsi notare nella seconda metà della stagione e magari arriva in top (o vince). Una su tutte? Sua deità Jinkx Monsoon.
C’è la delusional: spesso convinta di essere Barbra Streisand, di sapere fare tutto, arriva sempre seconda e non vince mai. Tipo Jan.
C’è la giovane fashion queen: fisico da modella, senso estetico da paura, scopre solo durante la serie di avere altre qualità (come recitare o far ridere). Di solito arriverà il momento in cui RuPaul le dirà: “Sei nata per fare la drag!”. Un esempio: Krystal Versace.
E ancora: abbiamo l’outsider (quella strana, come Willow Pill), la professionista (quella con un’esperienza immensa e un’enorme adattabilità, come Bianca del Rio), la predestinata (già dal primo episodio sappiamo che vincerà, come Sasha Colby). E via di seguito.
Drag Race inoltre è piena di eccezioni che servono a portare varietà, ma che il montaggio deve saper giustificare: doppi shantay (nessuna eliminazione), lip sync per la vittoria, strumenti random per la salvezza dall’eliminazione, votazione tra queen, premiazioni multiple.
Gli archi e le eccezioni sono una bomba narrativa che permette allo show di giustificare tutto (anche una eliminazione non digeribile), e di avere il controllo sull’esperienza emotiva della spettatrice. Se il montaggio riesce a creare una narrazione credibile.
Anche perché nei reality come nei videogiochi, chi ne fruisce si sente intitolata a valutare, compiere scelte, decidere come dovrebbero andare le cose. A cercare di prevedere il futuro prossimo. Se ci riesce, si sentirà la meglio persona. Può accettare di sbagliare solo se non si sentirà tradita (ovvero, se la coerenza interna al reality o al gioco non è stata palesemente rotta), e se la motivazione è ancora più interessante dell’ipotesi che ha creato. Sta a noi farle credere di essere arrivata a quella risposta da sola. Anche se è la più grossa bugia in un videogioco.
Game design come bugia.
In un panel di qualche settimana fa fatto con Letizia Vaccarella (vedi sotto), Letizia a un certo punto ci dice che il gioco ci dà solo l’illusione dell’agency. I giochi sono strumenti chiusi che ci portano per strade già tracciate o con un numero molto limitato di possibilità. Ma alla fine è chi si è occupato del design a decidere cosa si possa o meno fare e con quali risultati.
Un po’ come nella Drag Race, che ci offre l’illusione di essere davvero una competizione e non uno spettacolo televisivo, il cui principale obiettivo è essere spettacolarmente disonesto verso chi partecipa e verso chi guarda.
Reality show e videogiochi condividono il bisogno di nascondere questa mancanza di agency, di farci dimenticare che il gioco è truccato, e tutti gli strumenti visti sopra (casting, conduzione, montaggio) si impegnano per nascondere il trucco.
Per un reality, sbagliare può costare il futuro del franchise: la seconda stagione di Drag Race Holland è stata così sfacciata nel favorire una concorrente rispetto alle altre, da rompere ogni forma di illusione, e il franchise è stato cancellato (e no, non parleremo della Global All Stars: vivo in una realtà parallela in cui non è mai andata in onda).
In un gioco può voler dire perdere l’interesse e la fiducia della giocatrice, che non porterà a fine quel titolo (e magari smetterà di fidarsi del franchise).
A volte la rottura può anche essere ricercata: Indika manda a quel paese la sua coerenza in modo spettacolare e voluto, in linea coi suoi obiettivi. Nel mio piccolo, con Riscrittorə sto provando a inserire degli elementi di dialogo direttamente con la giocatrice.
C’è una bugia di game design che ammiro molto nella Drag Race, un modo per tracciare il percorso di una stagione senza farcelo vedere: l’ordine delle maxi challenge.
Mettiamo che siamo la produzione e quest’anno vogliamo che vinca un certo tipo di drag. Magari sono due anni di fila che vincono tipe camp super divertenti, ma ora c’è bisogno di cambiamento: ci serve una modella.
Se a inizio stagione mettiamo prima le ball, poi le sfide di design, e magari ripetiamo varianti di queste sfide più volte del solito, e ci cacciamo pure una sfida di ballo, possiamo essere abbastanza sicure che ora che siamo arrivate allo Snatch Game metà delle comedy queen sono state eliminate. Chi fruirà della stagione non penserà che il gioco è truccato, e vedrà la vittoria di (autocensura) come inevitabile.
Diversi MMO fanno in modo che i primissimi secondi di gioco tu non possa morire per non caricarti di eccessiva frustrazione e farti abbandonare il gioco. In Stray o in Split Fiction i salti sono facilitati dal gioco stesso, creando situazioni in cui, pur avendo preso la mira con la stessa precisione di Ursula la cana (zero), riusciamo ad atterrare dove vogliamo. In Split Fiction la cosa è abbastanza sottile da renderla ignorabile, in Stray ho passato più tempo ad abbaiare infastidita che altro.
Quando vogliamo che un videogioco parli a un determinato target, facciamo in modo che gli elementi di design che sono ben visti da quella tipologia di persone siano i primi con cui dovrà interagire. Marvel’s Guardians of the Galaxy ha dei momenti emotivi, ma per la prima mezz’ora passi il tempo a saltare e sparare senza sosta (lo so, avrei dovuto pensare a un esempio migliore). Becoming Saint ci mostra prima il suo aspetto narrativo, e poi quello strategico.
You're perfect, You're beautiful, you look like Linda Evangelista!
Ovvero, altri insegnamenti dalla Drag ace che mi rendo conto che avrei voluto esplorare meglio, ma non c’è spazio.
Top al tributo, bottom alla copia. C’è un enorme differenza tra tributo e copia, e vorrei davvero che il mondo dei videogame questa cosa la imparasse. Le host dei vari franchise riescono a personalizzare la serie senza andare a intaccare la natura originale della Drag Race. Guardatevi un episodio condotto da RuPaul rispetto a uno condotto da Mama Pao (dea) in Drag Race Philippines. E ok, capisco che magari sei proprio innamoratə di Hollow Knight, ma invece di copiarlo e mettergli solo i colori diversi, potresti fare qualcosa di vagamente nuovo (come ha fatto Ultros)? Tanto alla fine ti rimanderanno Silksong anche quest’anno.
Minichallenge, maxxigame. I videogiochi possono imparare come creare i minigame dai reality, perché spesso hanno una coerenza interna con la narrazione complessiva e/o alimentano dinamiche fondamentali poi per il resto del gioco: in Drag Race può essere un vantaggio per una persona che ha conseguenze anche relazionali (es: poter decider chi fa cosa in una maxxi challenge, favorendo e sfavorendo alcune queen). Ma forse il master dei minigame è Alan Cumming nella terza stagione di The Traitors USA: non c’è una cosa che una che non sia fatta per mettere in discussione rapporti e alleanze all’interno del gioco. Crudelmente efficace, e molto più interessante dell’ennesimo minigame di carte o del dover andare a pesca.
Modding hunty. Ho descritto le drag quasi come delle minion, dei characters lanciati nella serie senza agency, ma non è per nulla così. E molte di loro una volta che hanno capito il gioco sanno anche come piegarlo ai propri obiettivi. Plane Jane nella scorsa stagione USA si è presentata con un suo arco ben curato, così da arrivare alla finale nonostante non fosse per forza più brillante di altre queen eliminate prima di lei. Il parallelo qui forse è più con l3 modders, con chi fa speed run, con chi decide comunque di giocare con le sue regole: personalmente, le meglio giocatrici a cui far testare i nostri giochi.
Losing is the new winning. Momento motivational: la Race ci ha messo anni per diventare un fenomeno di costume. Molte queen hanno mandato i loro provini per decine di volte prima di venire prese. Molte perdenti sono diventate delle star (Miss Vanjie). L’industria videoludica è in un momento complicato (traducibile sostanzialmente con capitalismo merda), il fascismo imperante non ci aiuta. Se stai vivendo difficoltà a trovare lavoro, questo non è indice del tuo valore. Molte queen hanno fatto fortuna anche fuori dai limiti e dal controllo di RuPaul (la Drag Race è tutto fuorché uno spazio sano). E a volte la soluzione è altrove. Puoi unirti ad altre persone senza seguire le logiche dell’industria (che Pietro Polsinelli ci ricorda sempre che non esiste, citando questo saggio), e ritagliarti spazi nuovi. Un po’ come hanno fatto i Boulet Brothers (con Dragula, uno show che è tre spanne sopra la Race a livello umano). E dì di no se serve. Non tutti i posti meritano le tue competenze.
‘Facts are facts!’. Come ogni gioco, anche i reality sono politici, e non parlo della presenza di Ocasio-Cortez come giudice di Drag Race qualche anno fa. Privilegiare la competizione sulla collaborazione ha un valore politico. RuPaul favorisce una visione del mondo Drag come di una professione legata a moda e stile, e per questo è sempre più costoso essere una delle queen dello show. Il risultato è l’esclusione di chi è in condizioni di povertà, di chi non ha un lavoro stabile, di chi ha condizioni familiari o di salute che non le consentono di investire le migliaia di dollari necessari per sembrare la più figa della situazione. Ogni volta che creiamo un gioco possiamo farci decine di domande: che società racconta il nostro design? Quali sono i suoi valori? Chi favorisce e chi no nel gioco? E fuori? Qual è il grado di accessibilità non solo a livello fisico (basta un click o servono sedici tasti contemporaneamente?) ma anche economico (gira anche sul tostapane, o un’ora di gioco richiede un PC da centordici giga di RAM?). Ma anche: come trattiamo chi lavora con e per noi? Stiamo trattando quelle persone con rispetto (emotivamente, professionalmente, economicamente)? Che ambiente di lavoro stiamo creando? Stiamo accogliendo i feedback di quelle persone, o preferiamo autoconvincerci che vada tutto bene? Riconosciamo pubblicamente il valore del lavoro fatto, o mettiamo il nome dello studio davanti a ogni cosa come il lib più basicone?
Le community create sono un ottimo indicatore anche della consapevolezza politica del reality o del gioco: e non casualmente, la community della Drag Race è tossica.
Qualche settimana fa ho incontrato una persona con una marea di storie per dei giochi e il terrore di provare a creare qualcosa perché non si sente all’altezza. Mentre scrivevo questo pezzo continuavo a dirmi: belli i libri, belli i video della GDC, belli gli articoli di Emily Short. Questa cosa ci crea la convinzione che serva tutto l'artigianato pronto prima di poter combinare qualcosa, e non sono proprio una fan di questa cosa (che può anche creare gate keeping), ma forse perché di base sono una che preferisce fare e poi capire (e infatti poi faccio disastri). Ma alla fin della fiera, narriamo tutti i giorni: lo facciamo quando raccontiamo dell'appuntamento col dentista o di una storia sentita sul bus o di un appuntamento. In quel momento facciamo una selezione della storia, decidendo cosa mettere in evidenza e cosa no. E facciamo anche character design, selezionando tra i molti elementi che compongono una persona (aspetto, vestiario, tono della voce, attitudini linguistiche, battute, valori etc) quelli che la definiscono al meglio per trasformarla nel personaggio di cui stiamo parlando, di cui abbiamo bisogno per gli obiettivi della nostra storia (far ridere, suscitare empatia, far arrabbiare o che).
Non tutte possiamo permetterci corsi stracostosi o di leggere roba complicata in inglese o di passare le ore su Unity e va bene così. Possiamo però partire da quello che amiamo, che sia il calcio o gli Stray Kids o le primule nel giardino, e da lì capire cosa possiamo imparare, e andare. Alla fine della giornata conta come sai guardare le cose, le parole complicate hai tutto il tempo del mondo per impararle.
Cose random che ho apprezzato in queste settimane
Come avrete capito ho finalmente finito Avowed, e non so ancora di preciso che cosa ne ho ricavato. Mi son segnata un po’ di idee per il futuro, e diverse cose da non fare in nessun gioco. Mai. Per il resto, è stato un mese dove ho giocato pochissimo (a parte Split Fiction con Mattia, che però mi sta piacendo molto meno di It Takes Two, ma forse perché sono più una ragazza da puzzle che non da action).
Con Gabriele ci stiamo mettendo in pari con From, mentre da sola sto recuperando l’ultima stagione di Dragula, ho iniziato La Ruota del Tempo e, se non si era capito, la terza stagione US di The Traitors.
Fortunatamente, sto leggendo moltissimo, soprattutto articoli di design e poi Diluvio di Stephen Markley. Sempre che non stia ascoltando a manetta Born Again di LISA, Doja Cat e RAYE.
Forse la cosa più bella di questo periodo però è un intervento di Giusi Palomba qui su Substack, che mi ha per un poco riempita di speranza. Dopo averlo letto vorrei tanto creare o trovare un gruppo pensato per prenderci cura di noi. Tempo fa un’attivista disse che i luoghi dell’attivismo dovrebbero essere luoghi di ristoro prima della lotta. Quanto abbiamo bisogno di ristoro, soprattutto ora che le cose sembrano andare verso un baratro?
E a proposito di speranza e anche di molta rabbia, qualche settimana fa Marin M.Miller è statə ospite de La Gilda del Cassero in un’intervista PO-TEN-TIS-SI-MA. Potete recuperarla qui. E poi: è nata Videogame Workers negli USA, sindacato per chi crea videogiochi. Ci attiviamo anche in Italia?
E infine: c’è un altro gioco palestinese dopo Dreams on a Pillow che ha bisogno di una zampetta ma che sta ricevendo pochissima risonanza: si chiama Palestine Skating Game. Potete aiutarlo con una donazione o facendone girare il link (un po’ come Cecilia Formicola, cuore, ha fatto da queste parti).
Aggiornamenti vari, e dove possiamo trovarci questo mese
Aggiornamenti sui progetti: ho ufficialmente chiuso il primo prototipo di Riscrittorə (o quale che sarà il titolo futuro). Ora è in fase di alpha testing nell’inner circle.
Diciamo che metà del motivo per cui non ho avuto tempo questo mese è per la crunchata che mi sono autoinflitta. Nei prossimi giorni inizierò a tradurre tutto in inglese (terrore). Una delle cose di cui sono più felice è di aver creato una piccola biblioteca nel gioco, coerente per tematiche col progetto in sé, dove si stanno accumulando storie di persone care. Abbiamo fatto un primo giro “ristrettissimo” per questioni di codice e testing, ma da maggio mi farebbe piacere allargare ulteriormente quella che, per come è settato il gioco, potrebbe diventare una biblioteca infinita. Stiamo anche cercando di capire come ridistribuire in modo equo le (illusorie?) entrate. Più avanti ci sarà un aggiornamento a modino.
Con il progetto grande di Owof siamo invece uscite dalla fase di testing e ora si entra in produzione (cosa che mi fa sempre ridere dire perché siamo quattro scappate di casa). Quindi doppio brindisi.
E sempre a proposito di videogiochi: In Their Shoes, il gioco di We Are Muesli per cui ho scritto due personagge e a cui ho collaborato insieme a Maura Saccà, Stefano di Bernardo, Riccardo Reina, Linda Amodeo e Benedetta Pierfederici si è preso una nomination ad A MAZE. Yuppi!
Da questo mese sto tenendo in codocenza con Daniele Fusetto un corso di narrative design presso AIV. Il livello di ansia e di sindrome dell’impostora è ENORME, ma avevo dimenticato che insegnare mi piace. Spero di portare a quelle personcine qualcosa di utile, e creare magari assieme nuove visioni.
E a proposito di nuove visioni: qualche newsletter fa vi dissi che ero tra le persone della nascente IGDA ER. Per una serie di motivi sono uscita dal progetto. Ora che uscirà la newsletter avranno già avuto la loro prima serata ma: mandiamogli buone energie!
Come accennavo prima, a marzo Letizia Vaccarella e io siamo stat3 ospiti di Ex Machina: se avete il coraggio di guardarci parlare di cose (molte cose), trovate il video qui.
Ma soprattutto: dove ci becchiamo questo mese? Abbiamo addirittura due occasioni!
Il 12 aprile sarò a Cotoletta 8bit per fare un panel con Mattia Belletti, Aza e Maura Saccà, grazie allo splendido lavoro delle personcine di Arcadia Cafè. Stiamo preparando qualcosa di pungente e caotico. Potete prenotarvi gratuitamente qui. Nel mentre cercherò uno sugar daddy che permetta a questo quartetto di girare il mondo portando in giro panel incasinati.
E poi, tra ansia e giubilo, questo è il mese di IN/VISIBIL3: il 26 e 27 aprile ci troviamo a godercela assieme! Qui c’è il calendario, se non l’avete già visto, e se vi va c’è sempre la possibilità di darci una zampettina con ko-fi, a questo link.
Cosa importante da dire e per nulla argomentata: fanculo le AI, studio Ghibli o non studio Ghibli che sia.
E infine: sondaggino!
Mi farebbe molto piacere capire, a distanza ormai di quattro mesi, quali sono gli approcci e i contenuti che preferite di più. O se ci sono delle tematiche che vorreste affrontassi. Lo spazio per scrivere nel sondaggio è minimo, per cui dettaglio al meglio qui:
Opzione uno: riflessioni su determinate tematiche e su come vengano elaborate nei videogiochi (es: Giochi post-lavoristi e gioia di vivere).
Opzione due: tematiche che toccano anche il mondo nerd, ma con uno sguardo più ampio (es: Fare la frocia).
Opzione tre: qualcosa di più inerente a narrative design e scrittura per videogiochi (sostanzialmente, questo post).
Opzione quattro: qualcosa tipo diario di sviluppo dei giochi in corso, con relative riflessioni.
Se avete altre proposte, scrivetemele liberamente nei commenti o dove vi va (e non sono sicura che questo sondaggio permetta di dare più risposte alla volta).
Grazie di cuore intanto.
E per questo mese è tutto.
Come sempre, l’invito è aperto per commenti, critiche, consigli, cuscini morbidi e una casa in campagna dove recuperare le energie.
Restiamo frocie.
QW
Buondì. Mi commento da sola in modo forse un po' sciocco, ma ho realizzato solo dopo aver montato tutto che forse sulla parte di game design sono stata inaspettatamente cinica. Non credo che il game design sia di per sé una bugia, non più degli altri strumenti a disposizione per chi fa fiction. Anzi: ogni design è conversazione. Alcune conversazioni tendono ad aprire il cuore, altre alla manipolazione. Dipende sempre dall'intento con cui le avviamo.
amore se questo è un post "low effort" porca miseria ❤️❤️❤️❤️
che bomba tutto non vedevo l'ora di leggere questo post l'ho amato è tutto così giusto e reale